Il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una data simbolo per ricordare i casi, ancora troppo frequenti, di violenza fisica e psicologica nei confronti delle donne. Vittime che molto spesso trovano il loro carnefice tra le mura domestiche e che sono costrette a una dura battaglia per riuscire a riconquistare la loro libertà e indipendenza, che non cancella comunque le cicatrici lasciate da quanto vissuto.
Di storie così Elia Impaloni ne conosce tante. Presidente della cooperativa “Liberazione e speranza” con sede a Novara ma che opera anche a Vercelli e Domodossola proprio per offrire un sostegno concreto alle donne, dalle vittime della tratta a quelle che subiscono violenza domestica.
“La nostra esperienza parte nei primi anni 2000 come associazione che si occupava di donne vittime della tratta e dello sfruttamento sessuale, poi dal 2012 in base a una direttiva della Regione Piemonte abbiamo creato una rete per il contrasto alla violenza di genere” racconta Impaloni.
In cosa consiste il vostro lavoro?
Operiamo come centro antiviolenza aiutando le vittime nel percorso di protezione. A volte si tratta di donne che chiamano direttamente il centro altre volte ci vengono segnalate dai Pronto Soccorso in cui si recano per farsi medicare delle ferite subite o dalla polizia a cui denunciano l’aggressore. Anche se da questo punto di vista non sempre tutte le donne che chiedono aiuto denunciano e non tutte le denunce significano un concreto allontanamento dall’uomo violento.
A Novara operiamo non solo come sportello ma abbiamo una vera e propria struttura di accoglienza e condivisione della vita quotidiana. Al momento sono ospiti 14 donne e cinque bambini.
Ma non si tratta solo di offrire un tetto sopra la testa…
Assolutamente no. Nel centro si svolge tutta la condivisione della vita quotidiana ma si lavora per garantire a queste donne di poter davvero ricostruire loro stesse e la loro vita. Per esempio centrale è il tema dell’inserimento lavorativo per chi non ha lavoro o si tratta di rafforzare le situazioni lavorative già esistenti. Se le donne non sono messe nelle condizioni per provvedere alla propria indipendenza economica più difficilmente riusciranno a liberarsi degli uomini violenti. Bisogna tenere presente che per queste donne la via di uscita può risultare più complessa del rientro a casa se non si crea una rete di strumenti per sostenerle.
Il Covid ha costretto a convivenze forzate e i dati parlano di un aumento dei casi di violenza durante la pandemia. È così?
Devo ammettere che abbiamo avuto un grande numero di richieste di aiuto nei periodi tra fine aprile e giugno 2020, alla fine del primo lockdown generale. Ora molto meno, nell’ultimo anno abbiamo raccolto a Novara 112 casi. Ma temo che, come anche per altri aspetti, le conseguenze dell’emergenza sanitaria si vedranno nel lungo termine.
Il 25 novembre è una data che vuole sensibilizzare su questo tema. Ma si può immaginare un futuro in cui ciò non sia più necessario, in cui la violenza di genere non sia più un’emergenza?
Ciò che andrebbe fatto è un lavoro che parte dalla famiglia, fino alla scuola e al sistema educativo nella costruzione dell’identità. Bisogna lavorare per prevenire la violenza insegnando ai nostri figli e alle nostre figlie l’affettività e la sessualità, aiutandoli a riconoscere le relazioni rispettose.
Le norme ci sono, non si tratta di applicarle quando si verifica un caso. Bisogna lavorare per prevenire la violenza. E per farlo serve creare un’azione di sistema, realizzare una vera e propria unità di crisi all’interno dei territori. Lavorare non su singoli progetti, ma trasversalmente unendo tutte le competenze necessarie.